A partire dal '700, l'allevamento dei bachi da seta fu un importante supporto al reddito della famiglia contadina e divenne un'attività economica integrativa nel corso del '800 e del '900. Località Campagna, a Rocca, rappresentò una zona dove la bachicoltura ebbe successo. Alcuni contadini producevano in proprio i bachi per l'allevamento, altri li compravano o li ricevevano appena nati. Le uova si schiudevano tra la fine di aprile e l'inizio di maggio e l'allevamento era affidato perlopiù alle donne e ai bambini. Le stanze che venivano adibite all'allevamento dei bachi, dette "cavalier" per le attenzioni che venivano loro riservate, avevano grandi finestre tenute sempre aperte per garantire l'aerazione. Per contenere i bachi si costruivano graticci o intelaiature in legno con fondo in canne o tela. I piccoli bachi nati dalle uova venivano messi sui graticci e alimentati con foglie di gelso. I letti venivano periodicamente ripuliti per evitare malattie al baco. I bachi crescevano fino a diventare lunghi 7/8 centimetri, ed insieme a loro cresceva la quantità di cibo necessaria per alimentarli e lo spazio occupato. Quando il baco aveva completato la sua opera avvolgendosi nel filo di seta, iniziava il processo di trasformazione che lo portava ad essere filato. Con l'essiccazione si uccideva l'insetto per evitare che forasse il bozzolo, poi si effettuava la cernita in base alla qualità e l'asportazione della lanugine che ricopriva il bozzolo. Partendo dai bozzoli essiccati, era necessario scaldare dell'acqua nella "cagliéra", immergere una manciata di bozzoli nell'acqua, attendere che i bozzoli si schiudessero un po' e, infine, con le mani immerse nell'acqua caldissima, si prendevano i capi del filo e si filava. La donna che filava era solitamente aiutata da una bambina che provvedeva a mantenere una scorta di bozzoli e faceva girare l'aspo attorno al quale veniva filata la seta. La produzione di bozzoli iniziò a diminuire nel periodo tra le due guerre mondiali fino a scomparire completamente negli anni '50 a causa della produzione di fibre sintetiche e del cambiamento dell'organizzazione agricola che non lasciava più spazio per lavori così impegnativi e poco redditizi. Un'originale "cavalier" è visitabile presso il Museo Casa Maddalozzo (Tratto da: Guida alla visita del Museo Casa Maddalozzo a cura di Desy Zonta)
Far filò
Il termine Filò deriva, presumibilmente, da "filare", cioè dal lavoro particolare che le donne facevano d'inverno nelle stalle. Stabilì in seguito gli incontri serali di varie persone nelle stalle durante la stagione più fredda, per stare al caldo, per passare il tempo, per recitare il rosario, per sentir qualche novità del paese o dei dintorni, per far piccoli lavori a mano, per parlare e per sparlare. Fare Filò” significava anche discorrere del più del meno, tra vicini di casa, tra abitanti nello stesso gruppo di case, tra gruppetti di persone, tra parenti e amici. Significava stare insieme, chiacchierare, spettegolare, raccontare, custodire e trasmettere le tradizioni. Poiché un tempo non c'era il riscaldamento, nelle case fintantoché funzionava il fuoco per preparare la cena, si poteva anche resistere, ma quando esso si spegneva, le cose cambiavano, e nelle case cominciava ad esserci tanto freddo. E allora, giunta la sera, dopo cena, la gente si rifugiava nelle stalle, al caldo. Quel caldo aveva qualche inconveniente, perché il bestiame della stalla, dove vacche e maiali coabitavano nello stesso ambiente, di solito molto piccolo e basso, produceva sì calore gratuito, ma anche tanto odore. Ma tant'era, e piuttosto che congelarsi nelle case, si sopportava l’odore e un'aria malsana, anche perché nella stalla si radunava la contrada, la corte. C’era insomma un po’ di mondo. Ma come si sviluppava la serata? Terminata la cena, messi a letto i bambini più grandi, le donne e gli uomini si riunivano nella stalla. Le donne che andavano a "filò" di solito si portavano dietro qualcosa da fare, come gli attrezzi per filare la lana, per fare e disfare le matasse, aghi, filo,ferri da calze o da maglie. Gli uomini anziani si sdraiavano sul fieno. Gli uomini più giovani, invece, aggiustavano i loro attrezzi da lavoro o fabbricavano qualche arnese utile per la casa e per la stalla quali cesti, rastrelli, gerle, forche o scope. A volte poteva esserci qualcuno che leggeva a puntate qualche libro famoso, oppure raccontava fatti accaduti o sentiti narrare da altri, spesso stravolgendone i contenuti. Benché il filò degenerasse in maldicenze e pettegolezzi, specialmente sulle ore tarde, esso fu per quei tempi l’unico canale di trasmissione e di diffusione di cultura, quella cultura povera ed importantissima che ci è stata tramandata
I caséi
I Casei di Mellame e Fastro nacquero rispettivamente negli anni 1880 e 1927 sull'esempio del Casel di Canale d'Agordo, la prima latteria sociale cooperativa della provincia di Belluno, entrata in attività nel 1872 sotto la guida del parroco don Antonio Della Lucia. L'iniziativa ebbe successo e rapida diffusione in tutto il bellunese. Queste latterie erano una grande risorsa per i paesi di montagna ed avevano carattere turnario, nel senso che i soci si alternavano nella lavorazione del latte, i cui prodotti (burro, formaggio e ricotta) venivano in parte ripartiti fra i soci in base al quantitativo di latte conferito e in parte venduti al pubblico. Con l'entrata in funzione delle grandi latterie di tipo e dimensioni industriali, fra il 1958 e il 1970, queste ormai obsolete e poco redditizie strutture rurali in breve tempo scomparvero. Verso gli anni 2000 le Comunità Montane, d'intesa con le Amministrazioni Comunali e con il contributo finanziario pubblico della Regione Veneto e privato della Fondazione Cariverona, avviarono l'opera di recupero dei Casei. Fastro e Mellame si attivarono subito per beneficiare di questi finanziamenti e la loro prontezza nell'avviare le pratiche fu premiata. Recupero, comunque, non andava inteso come ritorno all'antica lavorazione del latte, ma come ristrutturazione degli immobili all'insegna del "ricordo" e con finalità culturali, sociali e ricreative. I nostri casei, infatti, hanno destinato il piano terra ad attività museali riservate soprattutto ai giovani e alle scolaresche, e il primo piano, polifunzionale, a manifestazioni varie, conferenze e attività di svago